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Le fondazioni di comunità di fronte alla sfida comunitaria nella contemporaneità

Il racconto della V Conferenza Nazionale delle Fondazioni di Comunità, vero e proprio laboratorio di senso e pratiche della “costruzione comunitaria”. (© Photo by Christopher Paul High on Unsplash) (autore:*Giovanni Teneggi per l’Agenzia CULT)

La V Conferenza Nazionale delle Fondazioni di Comunità promossa da ASSIFERO (Associazione Italiana Fondazioni ed Enti Filantropici) e tenuta fra Siracusa, Modica e Favara il 29 e 30 settembre scorsi è stata un vero e proprio laboratorio di senso e pratiche della “costruzione comunitaria”. Così l’ha proposta il suo Segretario Generale, Carola Carazzone, e così l’hanno immediatamente istruita in avvio dei lavori le Fondazioni di Comunità di Noto e di Agrigento e Trapani con le loro presentazioni: pensieri, parole e (già) opere dense di visione e innovazione sociale, strettamente legate al nostro tempo e coraggiosamente sperimentali.

La cronaca del primo panel, che mi ha visto partecipare insieme ad altre esperienze che via via incontreremo, ha accettato la sfida e si è subito trasformato in tempo vivo di ricerca conversativa sul tema. Il confronto plenario che lo ha seguito ne ha peraltro indicato chiaramente la chiave e lo sviluppo, quasi a riscontro della puntualità dell’intuizione di metodo e merito che la Conferenza ha proposto. Il Presidente della Fondazione di Comunità Canavese, Augusto Vino, ha alzato lo sguardo dell’assemblea sulla responsabilità comune che riguarda le Fondazioni di fronte alla sfida della comunità e sulle azioni da programmare insieme. Orietta Filippini, Direttore della Fondazione della Comunità Bresciana, ha posto quindi la questione di fondo: non ci si può dire “di comunità” senza mettere in discussione l’attesa tradizionale della “funzione erogativa”, assumendo invece posture e iniziative trasformative, di piena e diretta implicazione, da “parte in causa”, sulla vicenda dei propri territori. Le esperienze introduttive citate con il racconto dei Presidenti delle Fondazioni ospitanti, insieme alle tante raccolte nella convivialità e quella della Fondazione Ronald MacDonald intervenuta per voce del suo Segretario Generale Maria Chiara Roti, ci hanno convinto sulla loro possibilità e invitato a una narrazione, anche scientifica e politica, più presente al fare e all’apprendimento che ci consente.

Tante premesse e contributi che già dal di dentro delle Fondazioni, arrivando a Siracusa, hanno aperto un varco alla discussione sulla distintività della missione comunitaria che queste entità rappresentano. Occorre una tensione che impedisce di valutare i progetti candidati al finanziamento delle Fondazioni, se non interroga prima il rapporto fra le stesse e i territori nei quali quegli stessi progetti si realizzeranno. Sono molte e plurali le pratiche di rigenerazione comunitaria alle quali oggi possiamo fare riferimento ma non frequenti quelle di diretto e corresponsabile engagement degli enti loro promotori, mentor o consulenti. Non v’è creatività efficace – diceva la biblista Rosanna Virgilli in una conferenza a Praglia, rileggendo le pagine veterotestamentarie di Giuseppe Principe d’Egitto presentandolo come primo cooperatore di comunità – senza condizioni di sogno, reciproca adozione e compassione. La sensazione che si muove e si rende percepibile fra i presenti ai lavori è che il tempo diventi in questo necessariamente “istituente” per tutti i soggetti che si qualificano comunitari e, in primis, fondazioni e cooperative. Forse addirittura non più species del loro genere ma, tutti insieme, genus nuovo e distintivo. Oltre alle missioni e agli interessi qualificati derivanti dai propri settori di riferimento (qui in particolare il secondo, con riferimento ai codici Ateco produttivi, e il terzo, con riferimento alle categorie di mutualità o bisogno assistite), si esige che pongano al centro, infatti, il bisogno dell’infrastruttura comunitaria come proprio specifico oggetto di lavoro.

LA COMUNITÀ COME PROSSIMITÀ UTILE DESIDERABILE

Andiamo quindi ai contributi dei relatori esterni, chiamati ad avanzare argomentazioni di strategia e progetto a questo quadro di premessa.

Quale comunità? La definizione e il perimetro prescrittivo lo ha posto Paolo Venturi (direttore di AICCON). Ha proposto di considerare la comunità come uno spazio di prossimità mutualistica che mette al centro della ricerca di relazioni, nell’ordine, riconoscimento, bisogno e assistenza. Non solo, la sua desiderabilità: un tempo, quindi, qualificato dall’intenzione e dalla tensione realizzativa. Ne traiamo uno sguardo che non segnala solo ciò che dobbiamo costruire ma anche, immancabilmente, ciò che cambia delle definizioni e dei paradigmi comunitari dai quali proveniamo e un portato novecentesco da superare molto impegnativo: identità, appartenenza, tradizione, intergenerazionalità di successione. Senza memoria dei quotidiani vissuti delle terre più interne e alte che narravano anche di attraversamenti, contrabbandi, transumanze, di mutualità d’attesa e contaminazioni ricorrenti e, ugualmente, delle urbanità biografiche e di senso fondanti le città del nostro paese, ci resta l’immagine revisionista di un territorio da sempre chiuso in una permanenza di rifugio. È l’eco del lutto dei vinti, è la consolazione volgare di comunità sedotte e tradite dalla storia più recente, senza più figli propri.

I capitali sociali e i patrimoni territoriali identitari attendono adozione e rappresentazioni (con)temporanee, l’appartenenza si nutre di accoglienza, la tradizione cerca trasformazioni utili e di vantaggio comune, l’intergenerazionalità guarda a figli d’altri insieme ai propri e ci sfida sulla globalità (che alcuni di noi potrebbero dire spiritualità) della nostra esperienza comunitaria. Massimiliano Monetti in Coltivare Comunità di Letture Lente la chiama sovragenerazionalità riferendosi da un lato alla profondità del cratere culturale e politico fra generazioni e, dall’altro, alla visione che la crisi ci consente.

LA QUOTIDIANITÀ DI SENSO COME FORMA D’ARTE. LE FONDAMENTA DELLA DIMENSIONE E DELL’INNESCO CULTURALE

Se queste sono le condizioni per la comunità contemporanea, la sfida si pone, innanzitutto e profondamente, sul piano culturale e pedagogico. Proprio su questo punto Cristina Alga, Presidente di Mare Memoria Viva, seguendo l’intervento di Venturi, ha introdotto il valore (necessario) dell’esperienza artistica che riconosce dal di dentro e restituisce a tutti chiavi e strumenti di lettura della realtà e, quindi, di rappresentazione. Non è possibile rappresentanza senza rappresentazione. Abbiamo perso – dice Cristina – la capacità di interpretare la realtà avendone smarrito le dimensioni di senso che l’arte esplora, restituisce e consente a tutti come tempo possibile.

Comprendiamo quindi che l’arte contribuisce a restituirci questo hardware fondamentale come commodity necessaria, diffusa e attesa e non invece – il rischio è presente – elitaria e selettiva. Un contributo alla conversazione sulla costruzione comunitaria che riporta alla passione zavattiniana per i naif che non rappresentano – diceva – “forme di cultura tradizionali e ufficiali, ma una cultura surrettizia che assorbono dall’aria, dal contatto diretto con le opere e con i giorni, (…) conservano una certa ignoranza di fondo ma quell’ignoranza per cui solo gli ignoranti sono capaci di veri lampi di sapienza”. Per le immagini del suo Un Paese, il fotografo Paul Strand si dimenticava l’obiettivo aperto di fronte alle persone nella quotidianità, rivelandone la connaturale dimensione artistica e ribaltando i ruoli, da soggetti ad autori. Lo racconta lo stesso Zavattini definendola “la qualsiasità dell’eccezionalità”.

Alcuni fra i più interessanti casi di costruzione comunitaria hanno innesco in una rappresentazione artistica partecipata che spiazza quella in uso e la rappresentanza che alimentava. Quello del Quartiere Sanità, partecipato dalla Fondazione San Gennaro, con opere di grande ispirazione quali il cortometraggio Vico Esclamativo e il libro con lo stesso titolo, a cura di Chiara Nocchetti, di sua diretta pubblicazione. Quello di Trame di Quartiere con “San Berillo Serie Web Doc” che Luca LoRe ha raccontato in Coltivare Comunità per Letture Lente. Ricordiamo poi sempre come la prima cooperativa di comunità della storia contemporanea sia nata nel 1980 a Monticchiello, in provincia di Siena, come frutto civile della rappresentazione artistica del loro Teatro Povero.

Oltre alla fondamentale funzione di abilitazione e innesco, i patrimoni culturali dei territori accompagnano la loro costruzione comunitaria come leva e vettore delle scale di sviluppo locale che le sono necessarie. L’esperienza della rete “Lo Stato dei Luoghi” è emblematica a indicare questa potenzialità e seguendo il racconto puntuale di Cristina Alga si è portati nei luoghi dove la cooperazione di comunità si è affidata agli stessi meccanismi con esiti di chiaro significato sociale, economico e politico, diventando spazi di “formazione della personalità” dei cittadini. Quella che il patto costituzionale lega alla garanzia dei “diritti inviolabili dell’uomo” (Art.2 Cost.It.). A Ostana, sotto al Monviso, che ha nella promozione culturale e artistica il binario della sua rigenerazione fino alla costituzione della Cooperativa di Comunità VisoaViso; a Mamoiada, nella Barbagia nuorese, che ha cambiato la sua storia, dalla disperazione delle faide alla cooperazione di sviluppo, con il progetto della Cooperativa Viseras che ha reso nuovamente fatto pedagogico, sociale ed economico la tradizione dei Mamuthones; nei progetti comunitari di recupero di spazi teatrali e cinematografici collegati a gestioni e programmazioni diffuse e partecipate, come realizzato a Perugia dall’Anonima Cooperativa che ha riaperto e rianimato il Cinema Postmodernissimo; nell’opera di riconoscimento e recupero dei patrimoni culturali dell’entroterra siracusano proposta e tradotta progressivamente in opportunità di legame sociale fra gli abitanti dalla Cooperativa MediBlei, presente ai lavori di Assifero con la Fondazione Val di Noto che li ha ospitati e introdotti; nell’analoga azione sviluppata dalla Cooperativa comunitaria Surgente ad Avigliano Umbro per risvegliare la Foresta Fossile oppure, insieme a molti altri che potremmo citare, nel caso della Cooperativa PratoCultura per la rigenerazione a Prato del complesso di San Domenico insieme alla sua piazza.

Benché così diffuso e ricco, il lavoro sui patrimoni culturali e artistici non contiene tutta l’opera che Fondazioni e Cooperative di Comunità sviluppano sui territori allo scopo di innescare, veicolare e crescere capitali per lo sviluppo locale. È infatti un’azione che si nutre di ogni risorsa materiale o immateriale dormiente, anche non accreditata di valori storici ma comunque capace di fare emergere, riconoscere e sviluppare aspirazioni presenti nel suo territorio oltre ad attrarne di nuove. Quest’ultimo cenno merita una sottolineatura: la domanda è più fuori che dentro ai territori perché a essere evidentemente sconfinato è il bisogno dell’uomo contemporaneo di una prossimità vivibile ed è globale, quindi, la ricerca di spazi dove porre le proprie domande di senso e desiderarne insieme le risposte. Era Italo Calvino, nelle sue Città Invisibili, già nel 1972, a vedere in questo l’essenza istitutiva di una città. Lo stesso appello, del tutto attuale, del filosofo Luciano Floridi che mette in guardia sul deficit di senso e capacità di controllo di questo tempo digitale, da imparare in esperienze e pratiche del fare comune che chiama cooperazione.

LA PATRIMONIALIZZAZIONE DELLE COMUNITÀ

Oltre alle condizioni culturali di innesco e all’attivazione dei relativi patrimoni, materiali e immateriali, l’affermazione della costruzione comunitaria che aspira all’urbanità deve quindi guardare alla sua “patrimonializzazione”. Un’intuizione portata nel dibattito dall’intervento di Francesco Mannino (Federculture) e decisiva. La declinazione/chiave che ci propone in questa direzione guarda al “valore d’uso” dei patrimoni territoriali e al suo ripristino. Già nell’intervento di Venturi era risuonata la “coscienza di luogo” di Beccattini che qui poggiava la sua argomentazione e la relativa provocazione. La perdita progressiva di implicazioni biografiche e di “scambi sul posto” che la crescita pubblica e industriale (poi anche terziaria) del nostro paese ha indotto è, al proposito, il contesto naturale da considerare. Se le infrastrutture territoriali non contengono più opere umane di una comunità vivente, se non sono più impregnate (e pregne) di fatiche e aspirazioni comuni, se non remunerano anche in riconoscimento, mutualità e felicità coloro che le abitano e intendono parteciparle, allora ogni investimento sarà di contenimento palliativo dell’abbandono e mai invece generativo di nuove forme di vita e consegna generazionale.

La poderosa stagione di fondi PNRR, in tutti i casi (troppi) nei quali accelera la costruzione di opere territorialmente disincarnate per mancanza di tempo, competenza, implicazione comunitaria e partecipabilità degli obiettivi, rischia di essere subdola e diffusa metastasi. E’ su questo punto che possiamo segnalare e mettere a disposizione l’”algoritmo” delle cooperative di comunità: riconoscere e rendere accessibile un patrimonio territoriale perso per trasformarlo contemporaneamente in beni economici (semplificando il riferimento a opportunità di lavoro e reddito), beni culturali (biografie e rappresentazioni dei viventi), beni sociali (ritualità e patti), beni ambientali (uno spazio fisico più bello, fruibile e utile) e capacità geografiche (mappature di senso e sconfinanti come quelle che attribuisce all’uomo “istintivamente” geografo Daniela Poli).

LA NECESSITÀ DEL COOPERARE FRA ENTI IBRIDI E UTILI ALLA COSTRUZIONE COMUNITARIA

Non vi può essere al riguardo un gioco di ruoli corporativi, funzionali e separati fra chi detiene o conserva patrimoni, chi li sovrintende, chi ne finanza le attività e chi le gestisce. Non basta “collaborare” – direbbe Floridi -, occorre un engagement comune e cooperativo sull’obiettivo di proporre, abilitare e sviluppare valori d’uso dei patrimoni territoriali. Intendiamo necessariamente anche la messa in discussione di ruoli produttivi (secondo settore) e ruoli sociali (terzo settore) dovendo invece promuovere una qualificazione generale dei processi di trasformazione delle risorse territoriali verso la costruzione comunitaria. Occorre ibridazione dei soggetti presenti ai territori e la loro qualificazione “per l’ufficio che esercitano invece che per la loro natura originaria”. Il riferimento è a San Gregorio Magno la cui lettura liturgica, proprio nel giorno della nostra conversazione, dava questa stessa immagine degli angeli e naturale trascinarne il senso dalla Cattedrale, dove erano iniziate, fuori luogo, alcune delle conversazioni della Conferenza, al Palazzo del Municipio.

In effetti, non c’è nessun ente credibile “per statuto” in questo nuovo gioco, che deve far considerare, invece, la modifica di sé e dei propri meccanismi tradizionali di funzionamento. Come si sta su un territorio in quanto parti in gioco invece che terzi finanziatori o terzi gestori di attività delegate? Non sarà comune e costruttivo di comunità ciò che per categoria e natura abbiamo pre-classificato o delegato a questa competenza. Lo sarà ogni attività capace di questa consapevole e intenzionale evidenza. Occorre che questa evidenza sia la più estesa possibile fra cittadini, residenti, enti pubblici e privati, imprese sociali e non, fondazioni e cooperative. Ben diversamente dalla smentita del ruolo dei cosiddetti corpi intermedi ne stiamo invece preconizzando qui il loro pieno ed efficace ritorno. È fondamentale, infatti, a questi obiettivi la presenza di enti “abitanti” capaci di ricerca, capitalizzazione di conoscenza, aggregazione dei fenomeni e delle azioni costruttive, accompagnamento. Una funzione che per essere sindacale deve prima accreditarsi in condivisione, competenza e utilità di fronte allo stato dei luoghi.

L’AZIONE POLITICA E DI RAPPRESENTANZA

Alla funzione sindacale occorre però arrivare, quasi a completare, dare legittimazione e anche maggiore velocità agli obiettivi fondativi e manutentivi della comunità. Se l’immagine è quella di un processo che vive della sua quotidianità creativa e di piena cittadinanza dei suoi abitanti, allora è necessario che l’attesa comunitaria sia anche e definitivamente istanza politica e rivendicativa. Il risultato di una ricomposizione fra azione culturale, azione sociale, azione economica e azione politica, nell’ambito di uno stesso progetto di ricostruzione comunitaria, è un risultato non indifferente della Conferenza in questa sessione di lavoro e rafforzata dalle esplorazioni sul campo che i partecipanti hanno potuto condividere a Modica e Favara. In genere queste azioni e le relative progettualità si presentano e sono sviluppate separatamente e così pure si presentano all’attenzione delle Fondazioni. La dimensione politica è addirittura neutralizzata e tenuta distante, quasi a preservare le altre da un’interlocuzione non concorrente con le rappresentanze e i poteri di amministrazione del territorio. Il contributo portato da Claudio Arestivo, fatto tutto il percorso fino a lui e all’esperienza di Moltivolti a Palermo, nel richiamo all’urgenza di un’azione politica di rappresentanza delle comunità viventi i territori (paesi e quartieri metropolitani), è sembrato invece necessario e di completamento coerente. Se è vero e possibile tutto il resto della costruzione comunitaria così come, passo passo, la giornata della Conferenza ha mostrato, allora – si può concludere con Claudio – ne occorre anche la rappresentanza nei processi decisionali del territorio.

La conclusione sarebbe stata questa e l’argomentazione politica ne ha certamente i requisiti. Tengo invece a dedicarla, seguendo peraltro lo stesso ordine degli interventi fra i relatori a Emma Taveri, destination makers con impegni amministrativi a Brindisi e una biografia di ritorno e riscoperta di un proprio luogo di abitanza. Prima di essere una destinazione interessante per un turista – dice Emma – un territorio deve essere una comunità di gioia e soddisfazione per chi intende abitarla. Affidandosi a quest’ultimo obiettivo avremo risultati più interessanti anche per l’attrattività di persone e interessi. Peraltro i partecipanti alla Conferenza hanno potuto conoscere al riguardo, dalla diretta voce di Viviana Rizzuto, presidente della Cooperativa di Comunità Identità e Bellezza di Sciacca, uno dei casi più interessanti del nostro paese. Emma però va più a fondo e indica l’obiettivo definitivo di questa opera – forse l’unico che valga la sua fatica – : che ogni persona sia una destinazione e un luogo possibile.

ABSTRACT

On 29 and 30 September, the fifth Italian conference on community foundations was held in Sicily, in different locations (Siracusa, Modica and Favara), reflecting on the strategic relevance of community foundations in Italy. Organized by Assifero, the national association of all non-banking origin foundations and philanthropic institutions, the conference was a real laboratory of sense and practices related to “community building”. The article presents an in-depth report of the event, highlighting the cultural, social, economic and political challenges these institutions have to face in order to keep the “community infrastructure” alive in the contemporary scenario.

*Giovanni Teneggi

Giovanni Teneggi cura lo sviluppo di cooperative di comunità per Confcooperative. Dal 2005 la sua attività di ricerca, narrativa e consulenziale è dedicata alla costruzione sociale ed economica della comunità. Ha avuto ruoli manageriali in enti sindacali, del terzo settore e organismi pubblici. Ha partecipato a pubblicazioni collettive su questi temi edite da Donzelli, Il Mulino, FrancoAngeli, LetteraVentidue e FBKPress. Abita e vive con la sua famiglia l’Appennino Tosco Emiliano dove è nato.

 

 

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